Mentre la scomparsa definitiva della pellicola accellera, il mondo del cinema deve fare i conti anche con la conservazione digitale dei film, un problema solo in apparenza inesistente.
A meno che non vengano superata le sfide della conservazione digitale, corriamo il rischio di un futuro in cui un film del 1984 ha più possibilità di sopravvivenza di un film digitale del 2014.
La tecnologia digitale offre la possibilità di una conservazione perfetta e senza perdite, ma solo a costi significativi e con rischi molto alti.
La versione digitale è perfetta, se lo scopo dell’archiviazione è permettere alle generazioni future di fare esperienza del film nello stesso modo in cui il pubblico l’ha fatta nel weekend di apertura.
Infatti, perfino per i film più recenti che sono stati fotografati e proiettati su 35mm, la migliore versione d’archivio è digitale. In quasi tutti i casi, le produzioni moderne che vengono girate su pellicola sono montate e ritoccate digitalmente. Il prodotto finale della catena di produzione non è una stampa analogica, ma un file conosciuto come Digital Source Master (DSM). Questo è l’equivalente digitale del negativo di una pellicola analogica, e viene usato per produrre tutte le copie di distribuzione, sia che siano in Digital Cinema Package per la proiezione nelle sale e per i rilasci in Blu-Ray e DVD, sia che siano 35mm.
Alla lunga, questo procedimento ha un enorme vantaggio sul negativo fotochimico: finché i dati si conservano, sono perfetti. La sequenza di uno e zero che forma un film è informazione pura, e non si degraderà nel tempo nel modo in cui inevitabilmente succede ai formati analogici. Se la versione analogica è preferita per motivi estetici, produrre una nuova stampa analogica dall’informazione digitale porterà risultati migliori, piuttosto che provare a conservare la copia originale nel tempo.
Ma, nel futuro immediato, conservare l’informazione è molto più difficile e costoso della conservazione della pellicola.
Nel 2007 il Science and Technology Council della Academy of Motion Picture Arts and Sciences, fece un sondaggio tra i maggiori studios e pubblicò un report, The Digital Dilemma. Nel report, vennero considerati solo gli studios più grandi, aziende che hanno il denaro da investire in conservazione e che hanno un forte ineteresse ad accertarsi che i loro archivi continuino a fruttare, mentre vengono sviluppati nuovi formati e metodi di distribuzione. Apparentemente erano proprio gli studios a dover essere i più pronti per la digitalizzazione. Eppure quello che venne allo scoperto, fu un ambiente in cui la pianificazione su tempi lunghi per la preservazione delle informazioni digitali non veniva fatta, in cui la tecnologia esistente non era adeguata ai bisogni archivistici e in cui la conservazione dei film richiedeva “importanti e perpetue risorse” molto più di quelle necessarie per la conservazione analogica.
Nella conservazione digitale non è il supporto l’oggetto che deve essere preservato. Il negativo su pellicola di un film è un oggetto unico e insostituibile, ogni copia è inferiore all’originale. Con una produzione digitale, non importa affatto se il file è su un hard disk o su un nastro magnetico, gli archivisti possono usare qualunque supporto faccia caso ai loro bisogni.
Il formato più usato è il Linear Tape-Open, un nastro magnetico comunemente usato per i backup, molto più stabile di un had drive, ma molto lontano dall’ideale. Anche se si suppone una vita di 15-30 anni, la maggior parte degli studios ne prevede 5. Non è un discorso di deperimento, ma di obsolescenza: dal 2000, nuove generazioni di LTO – nuovi nastri e nuovi lettori – sono state rilasciate ogni 2 anni, e sono retrocompatibili solo con le due generazioni precedenti.
Il risultato pratico di questa situazione è che un archivio digitale deve investire pesantemente in migrazione di dati per mantenere le sue collezioni. Ogni 5 anni, ogni film deve essere copiato su nuovi supporti, in una corsa costante contro la degradazione del nastro magnetico e l’obsolescenza dei lettori.
Considerando che i costi di migrazione si ripropongono ogni 5 anni, il dispendio di tempo e denaro, conviene agli studios conviene, finché continuano a guadagnare dai film prodotti, ma se si interrompe il ciclo di migrazione, i materiali vengono persi in fretta, e a rischio sono quei film minori, magari di non troppo successo, ma che fanno pur sempre parte della storia del cinema.
Affidare una parte significativa della nostra eredità culturale in un sistema in cui una mancanza di fondi può rovinare tutto, significa la catastrofe.
Peggio ancora, se le copie di un DSM sono perse, è difficile che ce ne siano altre. I Digital Cinema Packages distribuiti nei cinema sono criptati con delle chiavi che funzionano solo per un periodo limitato di tempo, una volta scaduta la chiave, i dati sono irrecuperabili. I tempi in cui una pellicola intatta veniva trovata nella spazzatura sono finiti.
Gli studios conservano anche una copia in 35mm, che, se conservata correttamente, può durare 100 anni prima di deteriorarsi. Comunque, produrre la copia della pellicola è molto costoso e i laboratori in grado di produrre queste copie stanno scomparendo, facendo lievitare i costi.
Una delle conclusioni a cui arrivò il Digital Dilemma è che i grossi studi di produzione dovrebbero spingere per lo sviluppo di un vero formato digitale, capace di sopravvivere per 100 anni. Non manca la capacità di ottenere una cosa del genere, quando ce n’è stata la necessità nuovi formati digitali sono stati creati. Ma l’industria informatica vive sull’obsolescenza, poiché guadagna dalla necessità di tutti di dover aggiornare i propri sistemi e le aziende private che compra tecnologia LTO non hanno interesse a conservare i propri dati per più di 7 anni, che è il tempo minimo di conservazione stabilito dalla legge USA.
Perchè i cinefili non sembrano preoccupati? In parte, perché i problemi legati alla conservazione digitale sono apparsi mentre molti lottavano per mantenere in vita il 35mm. Le debolezze dei media digitali venivano usate come munizioni per la battaglia, non viste come problemi da risolvere.
Dall’altro lato, se si vuole dare al tutto una chiave narrativa, le storie legate alla conservazione delle pellicole sono vere storie: tesori perduti riscoperti anni dopo. Nel tempo, l’arte riprodotta meccanicamente, se si tratta di una riproduzione analogica e unica, assume una certa aura di fascino. Il cinema digitale non avrà mai questa caratteristica, ogni copia è identica all’originale.
Oggi l’aura di fascino è una parte cruciale della conservazione storica. Nessuno racconterà mai la storia dell’operazione di traferimento di supporto che diede a “The Wolf of Wall Street” altri 5 anni di vita.
Ma il cinema digitale, il nostro cinema, verrà salvato, forse, da moderni amanuensi tecnologici che caricano nastri nei lettori e che dolorosamente trascrivono vecchi dati su nuovi media, oltrepassando la storia.
Articolo originale: http://thedissolve.com/features/exposition/429-film-preservation-20/